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Fratel Biagio

Ero medico di guardia, quella notte, tanti anni fa, in Clinica Medica al Policlinico. Avevamo da qualche giorno ricoverato un “barbone” per scelta, palermitano, umanamente “insopportabile”. Si ricoverava periodicamente da noi perché diabetico, e ci veniva inviato dal Pronto Soccorso con glicemie altissime. Era effettivamente malconcio in salute, cuore in disordine, complicanze. Gli infermieri ci raccontavano che prima di recarsi al Pronto Soccorso, mangiava al bar uno o due cannoli per elevare le sue glicemie. Lo ricoveravamo, lo compensavamo. Una sera lo sorpresi a rubacchiare cibo degli altri pazienti, nel frigorifero. Gli feci un “cazziatone”, si offese pure. Stava per qualche giorno nostro “ospite”, tornava per strada, rifugiandosi di notte alla Missione di Biagio Conte.

Quella sera, sarà stata mezzanotte, suonò il campanello del Reparto. Un infermiere mi avverti che c’era Biagio Conte in persona, era venuto a trovare il nostro ricoverato. Lo feci salire, gli spiegai le condizioni del paziente, lo accompagnai al suo letto. Prima di entrare in sala di degenza, mi sorrise e mi disse: “I santi siete voi, che avete la pazienza di occuparvi di persone come queste!”. Ed entrò nella stanza a parlargli. Ne uscì poco dopo salutandomi cordialmente, accompagnato da un suo collaboratore.

Sul momento quelle parole mi sembrarono un “pugno nello stomaco”, un paradosso, dette da lui: cioè che i santi eravamo noi, che facevamo semplicemente il nostro dovere, e non lui, che spendeva la sua vita per tanti poveri!

Queste parole mi sono tornate alla mente, di tanto in tanto, ma soprattutto in questi giorni della sua agonia. E ho concluso che voleva dire che la santità dovrebbe essere “coinvolgente”, non esclusiva. Chiamava “santi” noi, invitandoci ad esserlo, con lui. Richiedeva a tutti, e non solo a se stesso, quel “supplemento di amore” che solo salva il mondo.

Ecco perché, ancora una volta, Palermo soprattutto non dovrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di “cambiare” sulle orme di un “santo”: Dio ci ha donato Padre Puglisi, ci ha donato Biagio Conte. Non sprechiamo questi doni, ringraziamolo ma “convertiamoci” a quel “manuale di sopravvivenza” dell’uomo che, come scriveva Padre Turoldo, si chiama Vangelo.

Il “Santo del Sepolcro accanto”: così definisco, oggi, il Cristo Risorto, parafrasando Papa Francesco. Un sepolcro vuoto, accanto a tanti sepolcri pieni: bare disperse, fosse comuni. Decine, centinaia, migliaia di morti. Altri sepolcri pieni, anche se non contengono fisicamente dei corpi, sono quelli delle nostre speranze, sotterrate da certezze vane, da illusioni fugaci, da presunzioni illogiche.
Se in circostanze precedenti abbiamo augurato una formale “buona Pasqua” con un sorriso vacuo e superficiale sulle labbra, oggi stentiamo a pronunciare queste parole, se non accompagnate dal disagio della nostra condizione di sofferenza. Le nostre labbra si aprono a fatica, chiuse come sono dalla pietra tombale della paura e dell’incertezza.
Assume un senso diverso, questa rimozione della pietra, una motivazione più consona alla nostra umanità ferita.
E ci richiama all’autore di questo evento, lo stesso Cristo, lo stesso “Santo del Sepolcro accanto”, che era pieno e adesso è vuoto.
Tutta la vita di Gesù è stata “pasquale”, caratterizzata cioè da passaggi, da trasformazioni, da eventi salvifici, da liberazioni inaspettate: il suo smarrimento e ritrovamento a dodici anni, la trasformazione dell’acqua in vino a Cana, gli altri miracoli, la trasfigurazione sul Tabor… fino alla resurrezione da morte.
Fra tanti che giacciono, Uno che si leva.
Un solo sepolcro vuoto. Ma che può scatenare una “epidemia” di resurrezioni. Un contagio “pasquale”, solo che noi ritroviamo in Lui la roccia cui appigliarci, la speranza su cui fondare la nostra rinascita.
Questo il significato dell’augurio di “buona Pasqua” per un cristiano nell’oggi di una storia duramente “provata”; per un cristiano che può tentare di dire al mondo “risorgi”.
Mi chiedevo, da giovane, cosa potesse dire la Pasqua a un non credente. Mi chiedo invece, oggi, perché la Pasqua non converte tanto la vita dei credenti da trasformare il mondo, dando così ai non credenti una testimonianza efficace.
Anche il non credente, comunque, può attingere forza dall’evento pasquale di Cristo ritrovando nella solidarietà e nella fraternità motivo di vita e di speranza.
In tal modo, credenti e non, potremo rimuovere meglio l’enorme pietra tombale dalle nostre labbra e soprattutto dai nostri cuori, continuando a percorrere la nostra vita con rinnovato coraggio. “Buona Pasqua” assumerà allora un significato nuovo!

Il silenzio dei segni

Sabato Santo: per la Chiesa giorno “aliturgico”, in cui non si celebra alcun rito. Giorno di “sospensione”, di stupore, di attesa. Giorno di “inumazione” di tutto.
Nessun segno che non sia il silenzio.
Lo è oggi, paradossalmente, forse per la prima volta, anche per il mondo, sospeso, ancora incredulo per la recente e attuale “passione”. E non da oggi. Stiamo vivendo un lungo “sabato santo”, una quarantena che oltrepassa la stessa quaresima.
Per la Chiesa, continua il “digiuno” dei sacramenti. E mai come ora, dai credenti, viene fuori l’esigenza dei segni comuni della fede: l’Eucaristia, la Riconciliazione, il Battesimo, il Matrimonio. Paradossalmente, però, stiamo interiorizzando ciò che era per tanti solo esteriorità, per gustarlo meglio quando si potrà farlo nella sicurezza suggerita dalla scienza, che non è mai in contrasto con la fede religiosa, se non per coloro che sono nell’ignoranza o nella malafede.
Questa sospensione dei segni la viviamo anche nella vita di tutti i giorni: il bacio, l’abbraccio, la stretta di mano. E così come per i sacramenti, forse, quando ci sarà permesso, li apprezzeremo di più.
E il nostro “sabato santo”, da credenti o da cittadini, se lo avremo realmente maturato come il seme che sta sottoterra, sarà soltanto un “passaggio”; per i credenti una “Pasqua” verso la Resurrezione di Cristo, per tutti una rinascita delle coscienze per un mondo più umano.

Fino in fondo

La tentazione più forte dell’uomo di oggi, specie in questo periodo di grande “passione”, è la stessa espressa da Gesù nell’orto del Getsemani: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te! Allontana da me questo calice!”.
Tutti vorremmo evitare il dolore.
Ma il dolore fa parte integrante della vita.
Vorremmo che Dio ci cavasse fuori sempre da ogni problema.
Lo invochiamo spesso solo per questo.
Evitare il dolore comporta “e-vitare”, con una forzatura etimologica “scappare dalla vita”.
Se noi scappiamo, il dolore inevitabilmente ci raggiunge. E questo non è pessimismo, è constatazione di tutti i giorni.
Non dobbiamo certo cercarlo. Ma certamente “attraversarlo”, quando ci viene incontro.
Dio non è causa di dolore. Dio non punisce, salva. Dio di regola non interviene sui meccanismi propri della natura, biologici e non, che causano disastri. Dio non interviene sulla libertà dell’uomo, quando esso stesso è causa di disastri.
Ma nei disastri, causati dalla natura o dall’uomo, può aiutare l’uomo a rendersi consapevole, responsabile, a scoprirvi il suo ruolo di essere solidale e fraterno. E ciò non si verifica automaticamente. Nella tragedia che viviamo, non è automatico che ci si risvegli, alla fine, in un mondo migliore. L’uomo è libero di renderlo tale, o di rovinarlo definitivamente.
Perché il bene e il male non risiedono al di fuori dell’uomo, nelle circostanze, ma “dentro l’uomo”, Cristo lo ha detto a chiare lettere. E dal bene e dal male dell’uomo si realizzano i frutti di bene o di male. Sulla libertà dell’uomo Dio non interviene. L’amore non può essere imposto, e Dio-amore può soltanto donarlo, non per forza riceverlo.
E Cristo al Getsemani glielo ridona: “Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”.
Questa risposta innesca una dinamica di resurrezione: non ricercare il dolore, non evitarlo, ma incontrandolo, attraversarlo per superarlo.
Questo è il significato del Venerdì Santo: il dolore inevitabile come strumento di salvezza, la croce come segno di vittoria.
L’obbedienza “fino in fondo” che diventa Resurrezione.

Le tracce.

Riflettendo sul significato del Giovedì Santo, volendo dargli una peculiarità, non mi viene in mente altro che il carattere del “segno”.
“Segno” non è altro che la forma visibile di una realtà che non è disponibile ai nostri sensi.
La fede cristiana possiede proprio questa caratteristica: la presenza di segni significativi, che poi sono i “sacramenti”, che rappresentano tangibilmente una realtà celata, misteriosa ma non per questo inesistente.
Gesù Cristo è “il segno dei segni”: la rivelazione palpabile di Dio, il “sacramento del Padre”.
“Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo (I Gv, 1, 1-3)”.
Ma Gesù Cristo non ci testimonia soltanto l’esistenza di Dio, ce ne rivela l’essenza.
L’essenza del Dio Padre invisibile ci è mostrata appunto dalla liturgia della Parola della “Missa in coena Domini” del Giovedì Santo.
Due le “azioni concrete” di Cristo: la lavanda dei piedi degli Apostoli e la distribuzione di Se Stesso nel Pane e nel Vino. Due “tracce” indelebili dell’essenza di Dio, come Amore incondizionato e preveniente, che “serve” e che “nutre”, nel pane spezzato e nel vino che sprigiona gioia e vita.
Anche Giuda ebbe i piedi ripuliti, anche Giuda si cibò del pane e bevve del vino.
E anziché dissertare sulla sua “comunione sacrilega”, parliamo del dono di Dio che non esclude nessuno, Pietro o Giuda, il rinnegatore e il traditore, e che è aperto comunque al perdono.
Nessuna persona nella storia ha lasciato tracce di sè, più di Gesù Cristo. Sue tracce si possono rinvenire nella sua “filosofia”, nei suoi “detti”, nei suoi “discorsi”, nei suoi prodigi miracolosi, riportati dai Vangeli. Io li ritrovo, ancor di più, in Lui come Parola eterna del Padre e come presenza sacramentale nel Pane eucaristico, che sarebbero comunque improduttive, per noi, se non fossero accompagnate dal servizio ai fratelli.

Ricomincio da… Te.

Se c’è un giorno da cui “ricominciare tutto”, per un cristiano, è proprio quello di oggi: è la festa dell’Incarnazione del Verbo, che coincide con il “sì” di Maria all’annunzio di Gabriele.
È il momento del maggiore “nascondimento” di Dio, in una cellula fecondata che comincia a moltiplicarsi nell’utero di Maria (Theotòkos).
È il momento in cui Dio inizia a “condividere” pienamente la vicenda dell’uomo, in cui comincia ad essere “esposto” alla natura e alla storia.
È il momento in cui la natura divina si “impasta” a quella umana, rinnovando la creazione: Spirito su terra bagnata.
È il momento in cui si rinnova lo sprigionarsi di questo Spirito sul creato e sull’uomo, in cui questo Amore feconda una donna generandone la fusione fra creatore e creatura.
È il momento in cui si dimentica il peccato, e si ama il peccatore.
È il momento in cui si spazza via il Dio vendicatore, e si rivela un Dio Padre misericordioso, che mostra in ogni circostanza della vita la possibilità di “risorgere”.
È il momento della speranza.
È il momento di correre verso un’altra donna, portatrice anch’essa di futuro, per “magnificare” la salvezza recata da Cristo nella storia.
È il momento di “ricominciare da… Te”.

Luca 15, 11-32

La nota parabola evangelica che Luca riferisce al capitolo 15, versetti 11-32 del suo racconto evangelico, e che abbiamo ascoltato domenica scorsa, può ben chiamarsi “del figlio scialacquatore”, o “del padre misericordioso”, come classicamente conosciamo, ma anche “del fratello perfetto”; e mi sembra il paradigma della Chiesa di oggi.
Papa Francesco ce la presenta come “un ospedale da campo”, in cui confluiscono miserie umane, materiali e morali, poveri e diseredati, peccatori di tutte le specie. Ed invero questa visione non è lontana dal messaggio di Cristo, che è venuto “per i malati, piuttosto che per i sani”, per “le pecore perdute della casa di Israele” come per i Samaritani e le Cananee, e per gli uomini tutti i tempi e di tutti i luoghi.
Ciò nondimeno, la Chiesa è altresì tramite di una Parola che ricorda all’uomo il suo essere creato “ad immagine e somiglianza” di un Dio giusto, santo, e che pertanto è invitato a lasciarsi permeare da quello Spirito di amore che supera ogni legge e “rende perfetti”.
La casa comune del Padre pertanto è egualmente “accogliente” per chi rettamente vuole seguire il Maestro, e per chi vuole il perdono del Signore; per il lo scriba saggio e per la donna che ha abortito; per la coppia indissolubile e per il matrimonio fallito, per il monaco che prega e per il giovane che si droga.
Chi vuole rettamente seguire il Maestro, lo scriba saggio, gli sposi uniti, il monaco che prega non devono sentirsi privilegiati o distanti o superiori rispetto a chi vuole il perdono del Signore, alla donna che ha abortito, ai divorziati o al giovane che si droga. Senza contare che il male può radicarsi anche nel cuore di chi si sente “al sicuro”.
È invero molto più facile costruirsi “fuori casa” una chiesa di santi che convivere dentro una chiesa di peccatori. Il padre, nella parabola, esce fuori per cercare di convincere il fratello “perfetto” che non vuole rientrare.
Lo scisma considerato da Papa Francesco è appunto questo. È molto più “eretico” il figlio maggiore che non vuole rientrare che il minore che ha peccato ma che viene riabbracciato dal padre. I peccati sono lì, sono costitutivi di ogni essere umano contaminato dal male, e sono da condannare e superare in una dimensione di conversione.
Ma non per questo siamo impediti a rivestire il vestito della festa, a portare al dito l’anello dell’appartenenza alla famiglia di Dio, a mangiare il vitello grasso, che è per tutti, anche per chi non ha avuto neanche un capretto perché intento a giudicare, a condannare, a disquisire su una Verità fondata sul legalismo piuttosto che sulla misericordia.

Ascensione

“Allora quelli che si trovavano con Gesù gli domandarono:
– Signore, è questo il momento nel quale tu devi ristabilire il regno per Israele?
Gesù rispose:
– Non spetta a voi sapere quando esattamente ciò accadrà: solo il Padre può deciderlo. Ma riceverete la forza dello Spirito Santo, che sta per scendere su di voi. Allora diventerete miei testimoni in Gerusalemme, in tutta la regione della Giudea e della Samaria e in tutto il mondo. Detto questo Gesù incominciò a salire in alto, mentre gli apostoli stavano a guardare. Poi venne una nube, ed essi non lo videro più. Mentre avevano ancora gli occhi fissi verso il cielo, dove Gesù era salito, due uomini, vestiti di bianco, si avvicinarono loro e dissero: ‘Uomini di Galilea, perché ve ne state lì a guardare il cielo? Questo Gesù che vi ha lasciato per salire in cielo, ritornerà come lo avete visto partire’ ” (Atti degli Apostoli 1, 6-11).
Due brevi commenti:
Sembra che, fino a un momento prima che Gesù si congedasse dagli Apostoli, questi avessero il solo pensiero di conquistare il potere. Gesù abilmente “glissa”, e trasforma la volontà di potere mondano e la supremazia di un popolo sull’altro in un invito a proclamare il Vangelo a tutte le genti (cattolicità).
Gesù è salito in cielo col suo corpo glorioso, e con il suo corpo siede alla destra del Padre. Non è più soltanto il Verbo “per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose”, ma è anche il “Verbo fatto carne” in Gesù Cristo. L’umanità è così portata perennemente “all’altezza” di Dio.

Oggi, nel Vangelo della domenica (IV di Quaresima), ci viene proposta la parabola del “figlio prodigo” o del “padre misericordioso”. La lettura del Vangelo, in generale, propone in verità il dispiegarsi di sempre nuove “chiavi di interpretazione”. Per questo, un nuovo aspetto mi è balzato alla mente e al cuore: che questa vicenda sia in primo luogo generata da un conflitto tra fratelli. Padre Turoldo, in una riflessione sulla parabola, sospetta che la partenza del fratello, il dividere l’eredità, sia in primo luogo una presa di distanza, da parte del figlio minore, dal fratello maggiore, legalista, despota, intransigente, che offusca lo stesso ruolo del Padre. Nella casa paterna, una presenza ingombrante e lesiva della libertà del ragazzo. La sua fuga, ed il suo conseguente “perdersi” dilapidando il tesoro del padre, potrebbe essere stata la conseguenza del clima di rigore e di soffocamento dello sviluppo della sua persona.
È quanto è accaduto e accade nella Chiesa: questo perenne conflitto fra “sindrome del fratello maggiore”, come potrebbe essere definito il clericalismo tanto deprecato da Papa Francesco, e lo sviluppo della dimensione della Misericordia e dell’accoglienza. Quanti, fra coloro che si definiscono atei o agnostici, sono fuggiti dalla Chiesa per rifiuto da parte di molti “fratelli maggiori”! Ma non per questo essi non sono responsabili delle loro scelte. E qui entra in campo il “terzo fratello”, che non è altro che la “voce narrante” della parabola. È assente dal contesto della narrazione, ma in realtà ne è il protagonista: è Gesù stesso, che dovrebbe essere il mediatore fra i fratelli, inviato dal padre per affermare la prevalenza della Misericordia per il fratello errante sul legalismo del fratello maggiore.
Nella Chiesa di oggi c’è più che mai bisogno di riferirsi a Cristo e al suo Vangelo, piuttosto che ai muffiti tradizionalismi o alle imposizioni di schemi anacronistici. C’è bisogno di un ritorno al Padre da parte di tutti: di coloro che ne sono effettivamente lontani, ma anche di coloro che si sentono vicini, ma che col cuore ne sono altrettanto distanti. E Cristo deve ritornare ad essere il punto di riferimento per tutti.

Diavolo!

Quando, sedicenti cattolici “tutti d’un pezzo”, contestiamo Papa Francesco, imputandogli debolezza dottrinale, cedimento al marxismo, buonismo nei confronti dei peccatori e dei deboli, apertura ai fratelli di altre religioni…
Quando chiudiamo i porti, considerando nostra esclusiva proprietà la terra che calpestiamo…
Quando definiamo “nostro” il nostro e “casa loro” gli stretti spazi scampati alle nostre razzie…
Quando escludiamo dalla scuola i bambini immunodepressi e preferiamo che la frequentino i figli dei no-vax…
Quando la nostra legge è la separazione, la discriminazione, l’esclusione…

… siamo etimologicamente “diabolici”. Sì, diavolo vuol dire separatore.

Se dobbiamo utilizzare un modo per verificare non che Dio sia dalla nostra parte, ma che noi siamo dalla parte di Dio, un criterio semplice è che i nostri pensieri, atteggiamenti, azioni, non siano “diabolici”, cioè tendenti a separare e ad escludere.

Tutti i rosari agitati fra le mani non valgono un “non hanno più vino” di Maria; tutti i Vangeli tascabili esibiti nei comizi non valgono un “va’ e fa’ anche tu lo stesso” del buon Samaritano. E tutti i voti dei cattolici alla lega non valgono un “nessuno ti ha condannata?”.

Se un nemico hanno Cristo e i cristiani è Satana, il cui nome è “diavolo”. Impariamo a fare chiarezza nella nostra fede e nelle opere ad essa connesse.