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Archive for Maggio 2014

Davide è il mio nome

Davide è il mio nome. Sono un ebreo di trentaquattro anni. Ora che la vicenda umana del personaggio di cui vi narrerò si è conclusa da tempo, vorrei ricordare, di lui, ciò che per un attimo mi ha riguardato.

*****

Avevo circa tredici anni, il mio ingresso in sinagoga era avvenuto da pochi mesi. Mio padre era panificatore a Tiberiade, un villaggio presso il lago. Decidemmo, con gli amici, di fare una escursione, per pescare. Di tanto in tanto aiutavo mio padre in bottega, e quel giorno gli chiesi di dispensarmi dal lavoro. Mio padre, stranamente, mi accontentò volentieri (“Oggi c’è poco da fare”, mi disse), anzi mi diede un po’ di pane appena sfornato per il pranzo. Mentre ci avviavamo verso la riva, vedemmo una gran quantità di persone affluire verso i monti che circondano la distesa d’acqua, che per la sua vastità molti chiamano “mare di Galilea” piuttosto che “lago di Tiberiade”.

Dopo aver fatto il bagno, ci organizzammo con le lenze per pescare. Gli altri furono più fortunati di me, e presero una buona quantità di pesce. Io ne presi solo due, e li attaccai, con i pani, alla cintola. Era regola non scritta che ciascuno di noi mangiasse quello che aveva pescato. Mentre attendevamo che venisse l’ora di pranzo, continuava l’afflusso di gente verso i colli vicini. Mosè, uno dei miei amici, stava accingendosi a preparare il fuoco; mi allontanai allora per vedere dove si recasse quella folla. Rimasi prigioniero di quella marea di gente, e quasi impossibilitato a tornare indietro. Ce l’avrei comunque fatta, a ritornare, ma adesso la curiosità era più forte di me; ero anzi io a correre avanti a precederli, a fare a spintoni verso il luogo ove si accalcavano tutti. C’era, a un certo punto, una specie di servizio d’ordine: una dozzina di individui erano là ad impedire che ci si avvicinasse troppo ad un uomo, che aveva tutta l’apparenza del loro capo. Io mi feci largo, e riuscii a sedermi appena dietro di loro. Lui, in piedi, dopo aver rimproverato uno dei suoi perché aveva cacciato in malo modo una donna troppo intraprendente, diede uno sguardo intorno e cominciò a parlare, mentre in quelle colline si fece un gran silenzio. Una folla incredibile, muta.

Non è che io amassi sentire le tiritere che avevo già cominciato ad ascoltare in sinagoga. Quei salmi interminabili, quei commenti degli Scribi alla Torah… cercavo, a differenza di altri miei amici, di eclissarmi, retrocedere verso le ultime file, e sgattaiolare non visto appena possibile. Eppure, quel giorno, quell’uomo colpì la mia fantasia, prima che la mia mente, inchiodandomi sul posto: raccontava, faceva esempi, alzava e abbassava la voce mai monotona, sorrideva; non pronunciava, come i Farisei del Tempio, giudizi o sentenze. Mi colpirono alcune sue “parabole”, come le definiva lui stesso: un figlio che abbandonava il padre e poi, tornando, ne riceveva il perdono; un uomo di Samaria (avevo due amici, un ragazzo samaritano e sua sorella, che mi piaceva, ma che mio padre mi aveva proibito di frequentare) che salvava un poveretto derubato e picchiato dai briganti, a differenza di un Sacerdote e di un Levita, che non si curavano di lui; un figlio ribelle che lavorava nel campo come il padre gli aveva chiesto di fare, pur avendogli detto prima di no a muso duro, a differenza del figlio maggiore, che gli aveva detto sì ma non aveva alla fine obbedito. Mi piacevano, queste storie; anche perché ero anch’io figlio minore, fratello di un despota, in casa.

Il racconto di queste storie mi avviluppò in un’atmosfera di sogno; e vedevo che anche la folla era conquistata dal suo fascino. Alla fine, concluse con la parabola di un uomo ricco, che accumulava grano a tal punto da costruire un nuovo granaio, per sé soltanto, ma che sarebbe morto quella stessa notte.

Alzai gli occhi, vidi che stava per fare buio; ero stato lì tutta la giornata. I miei amici, sicuramente, avevano già mangiato e fatto un altro bagno sul fare del tramonto. Ci si riscosse tutti improvvisamente, rendendoci conto dell’ora tarda. Quegli uomini cominciarono a dire al loro maestro che aveva esagerato, e che doveva far andar via la folla, che non aveva ancora mangiato. A questo punto, l’impensabile: lui disse che erano loro che dovevano dare da mangiare a tutta quella gente. Non c’era stato molto sole, quel giorno, e nessuno osò dire quello che io, come altri, pensavano: che fosse ammattito del tutto!

Uno di loro, Andrea, si guardò intorno, e vedendomi, vide i pani e i pesci ancora pendenti dalla mia cintola, e ridendo, si rivolse agli altri: “Guardate, c’è un ragazzo con pane e due pesci. Che facciamo, una grande abbuffata?”. Sorrisi anch’io. Mi era venuta improvvisamente una gran fame, avrei voluto scappare per divorare almeno un pezzo di pane. Lui invece si voltò e mi fissò a lungo, come a chiedermi il permesso; io gli risposi senza parole, slacciandomi la cintola e “liberando” il cibo. Ma lo feci semplicemente, non con aria di sfida, non come per dire: “Voglio vedermela tutta”. Ero ancora affascinato dalle sue parole. “Distribuite questi pani e arrostite il pesce” disse incredibilmente.

Mangiammo tutti, pane e pesce arrostito; non vidi se altri ne avevano portato anche loro, come me, da casa, e li avevano messi a disposizione, come me, di tutti. Ma ne mangiammo tutti, in abbondanza. E il pane che ritornò a me, distribuito da quegli uomini, era proprio quello di mio padre, lo riconobbi. I pesci che mi toccarono erano quelli, li avevano arrostiti a puntino, da buoni pescatori. Mi ricordai allora di un’altra cosa che lui aveva detto poco prima: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? Non preoccupatevi dunque dicendo: <Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.”.

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E adesso che sono passati tanti anni, penso che quella che viene ancora narrata come “moltiplicazione” dei pani e dei pesci fu in realtà, almeno da parte mia, una “condivisione”.

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Li rividi, qualche tempo dopo, da lontano, sulla spiaggia del mare di Galilea. Mangiavano pesce arrostito. Non ebbi il coraggio di avvicinarmi, perché sapevo che qualche giorno prima lui era morto crocifisso dai Romani, a Gerusalemme, su istigazione dei Sommi Sacerdoti del Tempio. Ma quegli uomini sembravano allegri. Uno di loro si allontanò dal gruppo per far legna e si avvicinò a me. “Ancora tu, Andrea?” lo chiamai contento. Si voltò, mi riconobbe: “Sei il ragazzo dei pani e dei pesci, vero?”. Continuò: “Il nostro Maestro è risorto, e sta mangiando con noi sulla spiaggia.” Lo presi per matto, e scappai.

Seppi in seguito che i discepoli del Maestro erano ricercati dalle autorità religiose perché continuavano a dire che era risorto, ed erano stati alcuni frustati, altri addirittura uccisi. Mi chiedo quale vantaggio avrebbero avuto insistendo su una totale fandonia. Dopo tanto tempo, mi sembra il momento adatto per parlare con qualcuno di loro.

 

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Dissolvenza incrociata

Esiste, in cinematografia, la tecnica della “dissolvenza incrociata”. É quella per cui ad un’immagine che si sfuma ne viene sostituita subito un’altra, da cui riprende la narrazione. É quello che mi è sempre venuto un mente leggendo l’ultima parte dell’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus: la figura di Gesù che sparisce allo sguardo dei due, e che viene sostituita dal pane lasciato sulla tavola. É questo, per noi, il profondo significato dell’Eucaristia: la presenza di Cristo in altra forma, ma sempre concretamente percepibile ai sensi. Una fede che non si percepisca anche sensibilmente non é la fede cristiana. Il sacramento è proprio il luogo della percezione della fede.

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